Frugavo tra i cd di papà come se nulla fosse, con grande voglia. Un giorno, in quel lontano tempo che in fondo non era nemmeno un anno fa, lui mi disse "vuoi sentire qualcosa di davvero forte?", e mi mostrò quel cd. A guardarlo, mi dava una sensazione strana. Contrariamente contraria a ciò che penso ora di quella band, quella fantastica band. Ma era una sensazione bella. Quel nome, Grant-Lee Buffalo, mi sembrava qualcosa di forte, potente,elettrico, come in quei mesi piaceva a me nelle canzone brillanti e frizzanti di alcuni gruppi moderni (e non) che scoprivo mentre, piano piano, mi stavo facendo trascinare dalla potente e stupenda malinconia dei Pink Floyd, ancora non scoperti a pieno.
Alla fine non erano così, almeno non in pieno.
Erano di meglio, in fondo. E forse anche loro complici di quel trascinamento che mi avrebbe cominciato a far amare quella affascinante malinconia delle ballate rock che mi avrebbero fatto sognare qualche mese dopo. E anche ora. Forse per sempre.
Quella copertina, quei colori, parevano dare la sensazione di qualcosa di completamente inedito per me come per tutte le persone che si potevano mai avvicinare a un disco come quello.
La prima canzone, poi, voleva pure confermare le mie idee iniziali. Ma non per molto.
Lone star Song è una canzone elettrica, potente, con tutte quelle chitarre dure ma che alla fine, rendono il tutto lo stesso piacevolissimo come solo loro riescono. Un colpo forte che non può non far venire alla mente il Texas, come voleva anche Grant-Lee Phillips alla voce.
Ma subito dopo c'è ancor di meglio, qualcosa che avrebbe già rotto definitivamente le mie aspettative. Mockinbirds, è una di quelle stupende ballate a cui i Grant-Lee Buffalo sanno far amare molto bene. La voce di Phillips, poi alternata con Paul Kimble, che da la prova di non essere solo un bassista e un pianista molto bravo, rende benissimo ciò che deve. La malinconia si comincia a sentire, unita lo stesso a una forte potenza, tra un bellissimo assolo e l'entrata in scena di un inaspettato, ma comunque fantastico, violoncello.
Viene la volta di It's the Life, una di quelle canzone che ingenuamente saltavo, non capendone ancora quanto fosse stupenda. Forse per i miei gusti musicali che avevo in quei mesi ci voleva un po' per comprenderla, per poterne bene scavare a fondo. Basata sul giro veloce e trascinante di chitarra e sulla voce che ogni volta stupisce sempre di più di Phillips, su conclude velocemente, lasciando spazio alla canzone che più ho amato, assaporato, scavato fino alla fine, del disco.
Sing Along, una canzone sfortunatamente poco considerata del già poco considerato gruppo, è di nuovo una canzone elettrica e potente, che parte già benissimo. Basata sullo schema di Lone Star Song, la canzone riesce a stravolgerlo e renderlo, a mio parere, migliore. Quel potentissimo giro di chitarra, trascinato da quel "hammerin, hammerin!" sfocia poi in un assolo elettrico come non mai e un cambio di voci nelle strofe e nei ritornelli da urlo. Un applauso a questa canzone, che ogni volta che l'ascolto mi da sempre la stessa potenza addosso come la prima volta.
E dopo? E' l'ora di Mighty Joe Moon, la canzone da cui prende titolo l'album. Una ballata corta che lo stesso sprizza energia da tutti i pori delle due voci, pronti a mutare, cambiare e stupire a ogni secondo, per poi arrivare al ritornello, lento e malinconico, che rende la canzone ancora tra le migliori dell'album, in cui ancora nulla sembra stonare. Una di quelle canzoni che andrebbero sentite a ripetizioni per sempre, per tutta la vita anche, che finisce dove potrebbe ancora iniziare, ancor stupire. E invece no.
Poi è ancora l'ora di una canzone elettrica, in questo alternarsi di energie e malinconie. Ma questa volta è il momento di qualcosa che riesce a unire le due cose. Neanche qui una canzone lunga, ma qualcosa che, con quel basso che si sente forte da far sentire e respirare l'asprezza con cui sembra voler essere scritta, finisce in modo stupendo, prima potentissimo e poi lento e di nuovo malinconico, con uno di quegli alternarsi piano-voce che piace sempre: Demon Called Deception.
Siamo circa a metà album, dunque. E di solito, come successe anche questa volta, l'altra metà dell'album non la sentii mai accuratamente come la prima. Perché di solito la seconda parte mi deludeva sempre, e non volevo affatto che succedesse anche qui. E invece questa seconda parte, più triste, ma bellissima e stupenda da ascoltare per riflettere, per guardarsi indietro, è alla pari della prima. Lady Godiva and Me è un altro capolavoro, dove la bellissima batteria di Joey Peters riesce a brillare di luce propria. Un capolavoro che d'improvviso, quando sembra aver detto tutto, cambia toni in uno scoppiettante rock "giovanile", se così possiamo chiamarlo, che caratterizzerà anche una prossima canzone, Side By Side, una delle ultime dell'album.
E' l'ora dunque della canzone dell'album che, pur essendo bellissima, mi ha detto di meno: Drag è una canzone forte, dal finale sorprendente, ma che rischia di stonare un po' rispetto a tutto il resto.Last deys of Tecumseh , poi, è una canzone "campagnola", se così possiamo chiamarla, dal Grant-Lee Phillips un po' classico ma anche molto inedito, che stupisce per la sua eccessiva brevità, lo stesso molto funzionale per la canzone. L'inedito completo invece, ce lo becchiamo in Happiness, una delle canzoni più belle dell'album. Profondissima, con una voce ancor più profonde a ancora mai sentita. Una delle più famose del gruppo perché utilizzata anche come ost per una puntata del Dottor House, e sì, se lo merita. Magico il ritornello...
That'll bring you happiness, happiness
Is hard to come by, I confess
I'm bad at this thing, happiness
If you find it, share it with the rest of us
...che mostra una vero e proprio malinconico splendore.
Dopo la malinconia però, ci vuole qualcosa di spensierato. Honey don't think, come anche può suggerire il titolo, è una canzone spensierata, supportata anche dalle tastiere del magico Paul Kimble che non riesce a limitarsi al suo ruolo di bassista. Lo stupendo ritornello permette alla canzone, anche se molto corta, di colpire e lasciare un messaggio molto bello, pur senza dover per forza leggere il testo.
Di Side By Side ne abbiamo già parlato: è una canzone giovanile pronta ad esplodere ogni volta al ritornello e all'arrivo della chitarra elettrica, scoppiettanti come non mai e preparati a portare alla conclusione del disco, sempre più bello, sempre più potente ed emozionante. Rock Of Ages è infatti l'ultima canzone di questo disco, e continua nella profondità cominciata con Happiness. La canzone sembra un invito a guardarsi indietro, nel suo quasi completo ripetersi sempre, lasciando una sensazione bellissima addosso,
Mighty Joe Moon, come avrete sicuramente capito, è il mio disco preferito. Quello con cui ho più legami, quello che mi ha colpito di più, quello che mi ha lasciato più emozioni, passando a potenti canzoni elettriche, a stupende ballate profonde. Grant-Lee Phillips è uno di quei nomi che nella storia del rock doveva essere ricordato, ma che sfortunatamente non è così. Con la sua chitarra, con la sua voce, sempre pronto ad andare contro alle mode e dire ciò che vuole dire a modo suo. Lui e la sua chitarra. Stupenda la sua carriera da solista, di cui prima o poi parlerò. Paul Kimble è sorprendente, lui, la sua voce, il suo basso e la sua tastiera. Sempre pronto ad uscire dagli schemi e a stupire, mentre infine Joey Peters è un batterista fantastico, che riesce a tenere il tempo senza far casino ma riuscendo sempre a brillare di luce propria.
Il disco è da 10 e lode, qualcosa che tutti dovrebbero sentire. Il miglior disco anni 90, e non solo. Probabilmente uno dei dischi più belli di sempre. Perché se la musica è fatta di emozioni, questo album è il migliore di sempre. E comunque il suo posticino nel mio animo ce l'avrà sempre.
Nessun commento:
Posta un commento