Eclipse.
“Il matto è
sull’erba!”
“Quel pazzo è qui!”
Erano le parole, dette in un inglese apparentemente
ridicolo, che passavano di bocca in bocca, tra la gente che stava popolando
quel bellissimo giardino. Parole dette in uno stato quasi di paura, tensione,
neanche troppo deboli per non essere udite da tutti. Così d’improvviso quella
vastissima distesa verde, quell’immenso giardino, divenne stranamente, ma
neanche troppo, vuoto. Ma non per questo meno bello, perché tolte le persone si
potevano notare tutti i particolari che lo rendevano talmente perfetto.
Eppure questa storia non narra del giardino e della sua
perfezione divina. No.
In quegli attimi di tensione, di finta paura, o poco
prima, chissà, qualcuno si tolse le scarpe e cominciò a camminare nell’erba
senza troppi problemi, senza troppe preoccupazioni. Nello stesso modo si buttò
a terra, senza pensare troppo ai modi, ma con una strana espressione nel volto,
che in pochissimi avrebbero potuto decifrare. In quei passi pacati,
apparentemente da gente comune, come nel volersi mischiare,il ragazzo sentiva una
musichetta, lontana. Un giro, probabilmente di chitarra. Semplice, poche note,
ma quasi imprevedibile. Un po’ come lui. E forse quel giro lo aveva sempre in
testa quando andava lì, forse no, ma il tutto sembrava di una straordinaria
routine.
E anche quando tutti scomparvero, a lui non sembrò
importare troppo.
Il giro continuava
come se niente fosse, era ordinaria routine, dopotutto.
Lui non si fece
troppi problemi, quelle parole vennero assorbite da un lato della testa e gli
uscirono dall’altro. Forse qualcosa rimase, forse un piccolo dolore. Ma
qualcosa di impercettibile, qualcosa da cui non tener conto. Fino al momento in
cui tutto questo dolore si sarebbe rivoltato contro di lui. Fino a quando quel
dolore non sarebbe stato più semplicemente un segno di diversità.
Sdraiato,guardava in alto con le mani dietro il capo,
quando si alzò un piccolo venticello, che gli fece svolazzare i tanti capelli
che aveva in testa. Non che fossero lunghi o che cosa, ma ne aveva tanti che
formavano una strana capigliatura, ma affatto brutta. Ora il viso era
totalmente scoperto, non c’era più nessuna barriera per gli occhi che non
permetteva di fare ciò che più gli piaceva.
Ricordava anni passati in quel giardino. Anni di
fanciullezza. Giochi, divertimenti, follie. Follie che si potevano riassumere
in una folle risata, che ricordava a memoria.
E degli amici.
Non poteva sapere, o non lo voleva, se questi ricordi
appartenessero ad anni lontani, o a qualche giorno prima.
Non poteva sapere, se quelle figure che ricordava erano
reali o solo fantasmi della sua mente.
In mezzo al cielo, di un po’ azzurro e un po’ viola, si
poteva vedere la luna. Si intravedeva, lì, nel suo grigiore, o chissà quale
altro strano termine poteva essere usato per descriverla.
Nel suo grigio splendore, ecco.
A volte qualche nuvola le passava dinanzi, a volte si
vedeva di meno, chissà se per problemi di vista o per chissà cos’altro. Ma era
splendida.
Rimase lì a guardarla per tanto tempo, ad ammirare quel
volto che ormai tutti conoscevano.
In fondo, c’era qualcosa che nella sua lucentezza la
oscurava, la rendeva di giorno un pezzettino grigio in un cielo a volte
splendente e a volte di lacrime.
Si voltò, e dietro di se vide il sole.
Era una cosa particolare, quel posto, soprattutto nel
punto in cui si posava lui. Sembrava di essere in uno spigolo del mondo, o
forse al culmine dell’universo. Sembrava essere rialzati da tutto e da tutti, e
se ci si voltava si poteva vedere il sole alzarsi in cielo o richiudersi
proprio dinanzi a se. Uno spettacolo meraviglioso, anche se a lui non importava
troppo.
Cambiò posizione, si girò sdraiato e cominciò a guardare
fisso il sole. La scena era qualcosa di epico, sembrava che davanti a lui ci
fosse un baratro di vuoto cosmico, e che il Sole ci stesse per finire dentro.
Chissà, forse allungando la mano lo avrebbe anche toccato.
Lo guardò fisso per tantissimo tempo, immobile e in
silenzio.
Forse per interminabili minuti scanditi da quella che
poteva sembrare un azione noiosa, forse per ore, ma più il tempo passava più i
suoi occhi non si richiudevano dalla stanchezza di guardare in fronte la luce,
anzi, si aprivano sempre più in uno sguardo attento.
Forse era passato così tanto tempo che si era fatta sera,
forse l’obbiettivo di inquietare quella lucente entità col suo sguardo folle
era stato raggiunto, fatto sta che il sole tramontò, quasi ad una velocità
impressionante.
E in un attimo, le stelle sembrarono alzarsi più in alto
che mai, la prospettiva di quel posto sembrava cambiare, e ancora una volta il
suo incomprensibile sguardo si poteva posare su qualcos’altro.
Su qualcosa di meglio.
Finalmente la Luna splendeva lucente, finalmente la Luna
era visibile agli occhi di tutti, anche da chi non lo meritava.
Era visibile, ma era incompresa.
Lui lo sapeva, e pensava, pensava. A giudicare dagli
altri, doveva essere una cosa altamente improbabile.
Si alzò in piedi, si aggiustò le maniche, poi continuò a
guardare fisso la Luna. Cambiava spesso di posizione, si muoveva qua e la in
modo disconnesso, si abbassava, spostava, sgranava gli occhi o faceva qualsiasi
altra apparentemente folle cosa per raggiungere il suo temporaneo, ma neanche
molto, obbiettivo. Voleva guardare dietro la luna, voleva poter ammirare il suo
lato oscuro. Il motivo lo sapeva soltanto lui, ma era talmente preciso quanto
instabile.
I suoi pensieri erano giusti, in fondo.
Quando finalmente la follia può essere vista dal mondo,
ci si accorge che è comunque splendente agli occhi di tutti grazie al sole. E a
che serve a quel punto, splendere davvero. A che serve essere folli, se vieni
notato solo se illuminato da una stramba umanità, da una odiosa normalità?
Era scientificamente impossibile, giusto. Nessuno poteva
guardare quel lato della luna.
Nemmeno lui, che ci era talmente legato.
Chissà perché, poi…
Era un lunatico, giusto. Lo dicevano anche tutti.
Ma lunatico in quale senso?
Si sforzò un attimo a pensarci. Poi si accorse che aveva
fame.
Avrebbe dovuto lasciare quel lungo, dopotutto era tardi.
Eppure che ore erano non importava, era solo un trascurabile dettaglio.
Prese a camminare per uscire da quel giardino, per poi
voltarsi indietro per guardare ancora la Luna.
Mosse il suo sguardo in modo panoramico, catturò nella
sua vista tutte quelle stelle, che si riunivano e dividevano per formare dei
disegni divini e lucenti. Solo lui poteva comprendere quanto fosse stupido
pensare che fossero carri o unicorni, e non segni divini di richiesta di un
ritorno, o forse di un invio.
Forse in fondo solo lui poteva immaginarlo.
Ci fu un attimo strano, intenso, quasi
cinematograficamente epico. Quando lui si voltò per riprendere la camminata, il
suo sguardo era come quello di un arrivederci, di un saluto temporaneo, e
successivamente con la coda dell’occhio non poteva non guardare indietro ogni
qualche secondo.
Strano a dirsi, ma quell’immenso giardino dalle
particolarità divine ora sembrava intensamente vuoto e meno lucente. Come se
fosse venuto a mancare l’elemento che faceva spiccare ogni centimetro di quel
luogo. Il suo diamante pazzo.
Raggiunse un locale, probabilmente il primo che vide, o
forse c’era qualcosa che lo attirava all’interno.
Chissà, forse era quella scritta luminosa a pallini che
si accendeva solo di notte.
Ecco, in fondo stiamo usando lo stesso sistema delle
stelle e non ce ne accorgiamo.
Entrò, la musichetta nella sua testa sembrò evolversi per
un attimo, per ritornare col solito giro. La solita strofa, ma non importava
nemmeno.
Quello era precisamente la situazione e il luogo in cui
voleva meno trovarsi più nella sua vita. Eppure diamine, doveva esserci legato a
quel cavolo di posto!
Qualcuno lo guardava storto lì dentro, o forse anche più
di uno, ma non aveva per nulla voglia di guardarsi intorno con la acida
conseguenza di notare mille, per sparare un numero, sporche persone. Dei loro
nomi non importava. E anche se li avessero avuti, o se lui li avesse saputi,
sarebbero comunque rimasti le uniche misere e solitarie macchiette di
personalità che avevano nell’anima.
Il barista, anche proprietario, con quello sguardo da
uomo vissuto inglese, e un volto un po’ antipatico sorrise, un po’ da vecchio
amico, un po’ da forzato. Non disse niente, ma gli sorrise, seguendolo con la
coda dell’occhio mentre si sedeva solo ad un tavolino prendendo un giornale,
forse a caso o forse no.
Lui lo sapeva, lo aveva notato, e non poteva far altro
che disprezzarlo un po’ quello sguardo. E’ vero che molti dicono che il padre
era giunto a miglior vita durante la guerra, ma forse non era il caso di
sbatterlo in faccia sempre a tutti.
E pensare che proprio in quel momento qualcosa gli balenò
in testa, uno sciocco, forse, pensiero che si confondeva tra i tanti che aveva
in continuazione, ma allo stesso tempo cercava di brillare, pretendeva
attenzione.
“Poor Dad Died
Today”, lesse nella sua mente per un attimo, o forse lo sentì da una voce
lontana, vista la temporanea scomparsa della musichetta che aveva in testa, pronta
a tornare un attimo dopo.
Non ci pensò troppo, quella scritta lo aveva un attimo
inquietato e non sapeva nemmeno lui come. O il perché, probabilmente.
Così cancellò dalla mente il
messaggio, forse passato e dimenticato o forse di un lontano, o no, futuro, e
continuò a leggere al giornale. O almeno a far finta di guardarlo, come
pensavano gli altri.
Furono attimi strani, tesi,
come se lui fosse capace di far esplodere una bomba solo così, perché gli
andava.
Il suo “solito” gli arrivò sul
suo tavolino, ci fu uno scambio di sguardi, un incrocio, una piccola paura, poi
nulla: passato qualche tempo, lui se ne andò così come era arrivato, forse per
un richiamo lontano, forse perché era stanco di quel posto. E il cibo era
ancora lì, senza essere stato minimamente toccato. Probabilmente pure il
giornale.
Quando uscì quello che poteva sembrare un boato di emozioni esplose, e finalmente lui poté riguardare il cielo come aveva sempre voluto fare. Un cielo che sembrò pronunciare un sospiro di sollievo, in modo pacato, leggero, ma allo stesso tempo intenso. Come una persona lontana che lo pensava, come qualcuno che, pur sentendo la sua mancanza, riusciva a fare senza di lui.
La Luna si era spostata. Forse
lui si era spostato, forse il giardino, ma comunque ai suoi occhi non era più
nella stessa posizione. Ma, potevano passare le ore, potevano passare centinaia
di pensieri, centinaia di sforzi, ma l’unica faccia che si poteva vedere era
sempre, e soltanto, quella. Potevano passare mille ignoti volti di fianco a
lui, ma nulla sarebbe mai cambiato.
Poi qualcosa cambiò. La musica
si era evoluta improvvisamente. Quei volti sembravano meno sconosciuti.
E in qualunque caso, li
avrebbe rincontrati uno per uno.
E se la diga si squarciasse,
si rompesse e non tratterrebbe più nessun flusso folle,
E se non ci fosse più posto a
quello che chiamano Paradiso,
E se la sua testa scoppiasse,
ancora una volta, ma di oscuri pensieri accertando i timori altrui
Allora sarebbe stato
definitivamente certo che li avrebbe rivisti da lassù.
Li avrebbe rincontrati, quando
finalmente i loro pensieri, le loro anime coperte da maschere anonime, si
fossero liberate, forse il giorno della loro morte, forse il giorno della loro
liberazione. Nel lato oscuro della Luna.
Lo sfogo sembrò finire
d’improvviso, proprio nel momento in cui tutti potevano sperare che
continuasse. Oltre alla musichetta lontana, si sentiva un coro di fantastiche
voci, che potevano essere paragonate alle vocine nella tua testa che fanno la
telecronaca di tutte le tue azioni apparentemente memorabili. E qualcosa
ricominciò, qualcosa riprese a muoversi nello stesso modo in cui era iniziato:
il giro riprese.
Lontano, lontano da quel giardino, lontano da quei passi e lontano da una possibile, e stranamente probabile direzione, lo spettro di una persona tornava a casa. Era lo spettro di un barista, o forse di un proprietario. Lo spettro di un musicista, o forse di un poeta. E non una casa normale, la casa in cui tutto era iniziato, e forse in cui tutto era finito. E lì, sul tavolino, strumenti in mano e tanta voglia di fare, c’erano altri fantasmi, altri spettri, e perfino un rimpiazzo. Un rimpiazzo che non faceva affatto dispiacere ciò che veniva prima. Forse erano spettri solo ai suoi occhi. Forse quegli spettri avevano un nome. Forse quel nome era il suo, ed era quello che gli avevano suggerito le stelle.
Tanta voglia di fare, sì, ma
fare cosa?
Qualcosa di diverso, qualcosa
di mutato, o qualcosa fatto di rimpianti?
Eppure, qualsiasi cosa
avrebbero voluto fare, la risposta era già scritta, già udibile e riassumibile:
una folle risata pervadeva la loro testa. Il pazzo era ancora lì, non potevano
negarlo.
Lì a gettare chiavi dopo aver
chiuso la mente delle persone, lì a ridere follemente. Lì a ridere a
influenzare qualcosa di cui ormai doveva essere solo terribilmente lontano.
Nella loro testa, e forse anche nel loro cuore.
Ma era una risata follemente
udibile per poco, il tempo giusto per essere una voce da non accertare nei
crediti.
Una risata pronta ad essere
sostituita da un grido lontano, non udibile. Un lamento, un dolore.
Ancora una lenta certezza di
poterli incontrare di nuovo.
Un ritorno a casa.
Qualcosa cambiò d’improvviso,
finalmente. Ci fu una evoluzione inaspettata, il giro morì. Qualcosa si alzò, qualcosa cominciò a volare.
Un coro di voci cantava, e concludeva il loro miglior lavoro.
La sedia dondolava. Lui era a
casa, davanti a una scrivania. Qualcosa girava in quella stanza, qualcosa si
muoveva, qualcuno gridava, qualcuno rideva.
Qualcosa ticchettava
riportando le 3 del pomeriggio, una finestra si aprì non riuscendo a far
entrare nessuna luce, qualcuno provò ad entrare.
Qualche pensiero rimbalzava in
qualche mente folle, riassumendo una vita intera.
Tutto ciò che era la sua
realtà,
Tutto ciò che amava,
o che al contrario voleva
odiare,
Tutto ciò a cui era sempre
stato lontano,
Tutto ciò che aveva, forse
sbagliando, sempre salvato,
Tutto ciò che aveva potuto
creare,
Tutto ciò che aveva
rivoluzionato, o per errore distrutto,
Chiunque l’aveva sempre
giudicato,
Chiunque era sempre stato nel
suo cuore,
Chiunque lo aveva sostituito,
E tutto ciò che è adesso,
Tutto ciò che è andato,
Tutto ciò che sarebbe venuto,
Tutto poteva andare, tutto era
in sintonia, tutto era logico, umano, sotto il sole,
Ma ora è eclissato dalla Luna.
.
.
.
.
.
.
.
Tum.
Tum.
Tum.
Tump.
Tump.
Tum.
Tump.
There is no dark side
of the moon really. Matter of fact it's all dark.
Tum.
Tum.
Tump.
Tump.
.
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